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domenica 13 settembre 2015

Il lato oscuro della retorica

Nella settimana appena conclusa, dal mondo dell'informazione sono rotolate a noi due perle che è il caso di mettere ancora un po' in luce, se si vuole capire bene come funziona la comunicazione e interrogarsi sulle proprie responsabilità quando si scrive di qualcosa e ci si rivolge a un pubblico.

Abbiamo letto e sentito di Scattone che prima si è visto assegnare una cattedra e poi vi ha rinunciato per evitare l'ostracismo di parte dell'opinione pubblica.

Abbiamo anche letto e sentito, o visto, di membri della famiglia di Vittorio Casamonica ospiti di Bruno Vespa e abbiamo soprattutto subito gli strascichi, forse ancora più spinosi del fatto in sé.

Con la retorica bisogna stare attenti.

Io capisco il desiderio di chi fa informazione - anche il mio - di dare ai propri testi - quelli da leggere, ma anche quelli da ascoltare o da vedere - una bella forma, che possa accattivare, che possa inchiodare il lettore o lo spettatore, che possa suscitare in lui una reazione emotiva.

Al di là della verità e dell'utilità dei tuoi contenuti, per ottenere questo devi per forza ricorrere alla retorica.

Ma spesso, anzi, sempre, la retorica è un inganno.

Un inganno a fin di bene, ma sempre inganno resta.

Una metafora è bella, ma non contiene nessuna verità, una similitudine addirittura assume l'aspetto esteriore di un ragionamento corretto quando in realtà non lo è.

Da un punto di vista strettamente logico la retorica è fallace, ossia i collegamenti logici tra gli elementi in gioco non sono validi, anche se i singoli elementi possono essere veri o plausibili.

E nei fatti di Scattone e dei Casamonica della scorsa settimana, di fallacie ce ne sono a iosa.

giovedì 6 novembre 2014

Tra l'italiano e la Rai ormai è troppo tardi



Chi si ricorda di Non è mai troppo tardi?, la trasmissione televisiva che ha permesso alla Rai di insegnare l'italiano ai telespettatori che, usciti dallo sfacelo della seconda guerra mondiale e in piena ricostruzione materiale e identitaria, ancora stentavano a parlare il nostro idioma?

Alberto Manzi, con la sua lavagnetta, si occupò a partire dal 1960 di intrattenere istruendo il pubblico, e di fatto abbassando il tasso di analfabetismo, tanto da indurre lo Stato ad aumentare l'obbligo di frequenza scolastica, dopo il quale infatti la trasmissione non fu più prodotta.

La Rai - che a stento diresti essere la stessa azienda di oggi - in realtà già da parecchi anni prima del sessanta aveva lanciato altri progetti educativi per scolarizzare il pubblico, e tutte le iniziative dalla nostra televisione di Stato furono imitate da una settantina di paesi perché ritenute lodevoli.

A cinquantaquattro anni di distanza e nella stessa fascia di programmazione, ieri sera ho assistito alla disintegrazione delle ultime speranze sul ruolo educativo e istruttivo della Rai.

Nel finale della famosissima trasmissione L'Eredità, e precisamente in quel diabolico e geniale gioco chiamato La Ghigliottina - che tanto appassiona gli enigmisti - il conduttore Fabrizio Frizzi e il concorrente in gioco ne hanno infilate di perle grammaticali!

Dovere di cronaca riportare il misfatto, anzi, obbligo morale quello di infierire, perché paghiamo il canone, perché si vincono fior di quattrini in un periodaccio come il nostro, perché da chi parla alle otto di sera a milioni di italiani dobbiamo pretendere il massimo della competenza.

Me l'ero già presa con mamma Rai riguardo a un altro programma, Reazione a catena, che neanche a farlo apposta sostituisce d'estate L'Eredità.

Forse non è così casuale.

Ecco che cosa è successo.

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