Tra una tazza d’orzo profumata e uno scioglievole fagottino al cacao, qualche mattina fa i miei occhi hanno intercettato, sopra la cassa del bar dove a volte indugio al mattino, un A4 messo in orizzontale, che recitava così:
si avvisa la gentile clientela che i grattini si pagano subito al momento della consegna.
Che tutte le lingue del mondo siano evolute proprio grazie a chi – parlandole o scrivendole – ne ha forzati i limiti, è un fatto.
Un altro fatto però è trovarcisi nel mezzo e accorgersi che ogni testo si lega al suo contesto grazie al registro linguistico.
Per registro linguistico si intende l’insieme di consuetudini lessicali e sintattiche utilizzate in un determinato contesto comunicativo.
Per esempio, la spiegazione appena scritta ha un registro linguistico scolastico, manualistico, con qualche punta di scientifico.
Ma potrei anche dire che il registro linguistico è fatto dalle parole e dal modo di metterle insieme tenendo conto di chi hai davanti.
Il significato è lo stesso – quindi vedi tu quale spiegazione ti è più chiara – ma le modifiche al vocabolario e alla "tensione" della frase la cambiano.
Il gioco è molto evidente perché in questo caso c’è una commistione, un accostamento di registri affatto diversi: la frase inizia con si avvisa la gentile clientela, forma impersonale (si avvisa, ma chi?), cortese (gentile), formale (clientela), ma con uno switch sorprendente troviamo poi i grattini, il modo affettuoso con il quale vengono chiamati i biglietti delle varie lotterie gratta e vinci, per poi finire in un crescendo d’imposizione, in cui i proprietari del bar sottolineano per due volte quando vanno pagati (subito e al momento della consegna).
Il registro può essere molto utile quando si comunica in contesti dalle regole relazionali molto rigide: questo sia se conversiamo a un convegno di magnifici rettori, sia se scambiamo provocazioni a tempo di rap a un angolo di strada, in entrambi i casi le persone con cui parliamo presuppongono che useremo certe parole e certe formule.
Ossia, non ci sono registri migliori di altri, ma registri più o meno appropriati.
Quando la discrepanza tra il registro del messaggio e le regole del contesto si fa critica, il disagio di chi parla e ascolta – o di chi scrive e di chi legge – può farsi pesante, perciò se chiamiamo fratello il magnifico rettore lui solleverà il sopracciglio (anche questa reazione è dettata da un registro relazionale), e se appelliamo il nostro amico funky con la magnificenza vostra può darsi che ci rimediamo una pedata.
Ma sono state commesse anche delle ignominie in nome del registro linguistico: negli ultimi anni lo testimonia la lotta al burocratese, il tremendo linguaggio con cui le istituzioni ci parlano, così l’anagrafe – che per definizione sa come ci chiamiamo – ci si rivolge appellandoci utente, ci chiede di firmare sottoscrivendo e se gli chiediamo qualcosa ci assicura che ci risponderanno presto, cioè ci faranno pervenire un sollecito riscontro.
Al polo opposto, i tentativi di alcuni "giocatori della penna" di mescolare in modo intenzionale i registri, soprattutto nel teatro, con Dario Fo o Giovanni Testori.
È un processo inevitabile, la lingua viva si usa e si consuma, si logora e si ricicla, come qualsiasi altro oggetto di uso quotidiano e anche se qualcuno potrebbe storcere il naso e pensare che ai suoi tempi non sarebbe successo mai, in realtà il fenomeno è di vecchissima data.
Infatti, se una lingua è viva anche per le commistioni dei registri, viceversa essa muore quando si pretende di congelarla.
È successo al latino che prima di trasfondersi definitivamente nelle neolingue europee mostrava segni analoghi a quelli del cartello che ho letto nel bar: nella basilica di San Clemente in Laterano l’iscrizione dell’XI secolo accosta il Santo che parla in latino e biasima i suoi aguzzini per la loro durezza di cuore, con il pagano Sisinnio che li chiama fili de le pute.
La mescolanza dei registri, dunque, come sintomo di lingua viva?
Come ogni ricetta insegna, mescolare bene prima dell’uso.
fantastico !!!
RispondiEliminagrazie!
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